Che cos’è e come si fa il vino Kosher/Kasher o Cacher

Quando si parla di vino, non possiamo non pensare che da millenni il suo consumo abbia uno stretto legame con quasi ogni ricorrenza umana, soprattutto se queste abbiano contenuti o riferimenti religiosi, visto il particolare significato simbolico.

Il mondo ebraico, specie quando si sta parlando di credenti osservanti, segue dei rigidissimi princìpi alimentari che riguardano anche bevande come il vino, che non possono non essere seguiti con particolare attenzione e devozione.

Tali regole sono condivise tanto dalla comunità ebrea dei Sefarditi che nel medioevo era stanziata nella penisola Iberica, trasferitasi successivamente anche in Italia, quanto da quella dei ben più numerosi Aschenaziti provenienti invece dall’Europa centro-orientale, come Germania e Siria.

Benché le due principali collettività abbiano tradizioni differenti, quelle alimentari sono sempre state osservate congiuntamente, seguendo le Leggi ebraiche del Kasherut indicate nella Tōrāh e poiché gli Aschenaziti – tranne che in Israele – sono sempre stati molto più numerosi delle altre comunità, rappresentando quindi gli ebrei nel mondo è evidente che il termine Kosher da loro usato è diventato più noto degli altri.

In ogni caso, al di là dei diversi termini utilizzati, il significato è il medesimo, ben chiaro e molto rispettato dagli ebrei di qualsiasi etnia, pertanto, che si parli di kosher, kasher o cacher, il concetto è lo stesso, ovvero “puro”, “sacro” e per questo non dovrà mai entrare in contatto con nessun oggetto o persona che non siano altrettanto puri e sacri.

Detto ciò, non ci si deve stupire se la produzione di un vino puro, sacro, giusto, quindi idoneo al consumo di un pubblico ebreo altrettanto puro, sacro e giusto, sia regolata da una serie di rigidissimi princìpi.

Per cominciare, il vino Kosher può essere prodotto soltanto da ebrei credenti e osservanti e che abbiano uno spirito gentile, in quanto si sta creando un alimento “puro”, “sacro” e per questo ogni persona, così come ogni oggetto necessario per la sua produzione, dovranno essere altrettanto “puri” e “sacri”.

Per ebreo credente e praticante si intende colui che osserva i precetti della Tōrāh, osserva il Shabbat (ovvero non lavora dal tramonto del venerdì al tramonto del sabato, permettendo che anche il vigneto si riposi una volta alla settimana), indossa la Kipa o porta la tipica pettinatura religiosa chiamata Yamulka; Queste semplici anticipazioni ci fanno subito intuire le difficoltà che si incontreranno in questa produzione.

Per capire se una cantina, così come gli addetti e gli annessi vigneti, abbiano le caratteristiche minime richieste per produrre un vino Kosher, sarà necessario che un Rabbino esperto dell’argomento, faccia un accurato sopralluogo per valutarne struttura, terreni, vitigni e personale addetto, oltre ad accertarsi della disponibilità di una abbondante quantità di acqua.

Per quanto riguarda i vigneti, non potranno essere coltivate piante da frutto o da orto tra un filare e l’altro (pratica del Kilai Hakerem), in Italia e in Spagna sono tuttavia praticati il sovescio, la consociazione, l’inerbimento e la coltura promiscua.

Inoltre, prima di raccogliere i grappoli, sarà stato necessario che siano passati almeno tre anni nei quali i frutti siano stati raccolti ed eliminati prima della fioritura (pratica di Orlah) e soltanto dal quarto anno in poi sarà consentito vendemmiare.

L’unica operazione che può essere eseguita da chiunque è proprio la vendemmia, perché fino a quel preciso istante si sta ancora maneggiando della semplice frutta, ma dal momento in cui l’uva raccolta finirà nel primo contenitore posto in cantina, ecco che avrà inizio il processo di vinificazione e qualsiasi successiva lavorazione dovrà essere eseguita soltanto da ebrei osservanti praticanti.

Dovrà inoltre essere rispettato l’anno sabbatico, uno ogni sette anni, durante il quale la vite deve essere lasciata riposare, i grappoli non possono essere raccolti ma lasciati appassire sulla pianta per favorire vigoria e recupero (pratica Shmitah).

Poiché tutto ciò che è puro non può entrare in contatto con ciò che non lo è, se nei tini di fermentazione della cantina, così come nei contenitori per la maturazione, in acciaio, legno, cemento o altro, vi è stato vinificato un vino NON KOSHER – cioè non puro – ogni singolo contenitore dovrà essere nuovo o almeno purificato prima di inserirvi un vino Kosher.

Il procedimento di purificazione, detto di kosherizzazione – e qui si inizia a capire il perché di tanta necessità di acqua bollente – prevede che questi tini, vasche, botti e quant’altro, vengano riempite e svuotate d’acqua ALMENO una volta al giorno per tre giorni consecutivi.

Questo lavaggio con abbondante uso di acqua (bollente) si rende necessario per eliminare ogni traccia o residuo di semi, bucce, raspi, vinaccioli, impurità in generale della precedente vinificazione o maturazione di uve destinate a un vino non Kosher. Soltanto le parti in gomma delle strumentazioni utilizzate, dovranno essere sostituite con pezzi nuovi.

Stiamo parlando di un’operazione particolarmente impegnativa e costosa, soprattutto per gli enormi consumi d’acqua, tanto che alcune cantine, quelle più riflessive e ragionevoli, hanno pensato bene di dedicare alcune aree della cantina con le relative attrezzature (macchinari, serbatoi, pompe ecc…) esclusivamente per la produzione del vino kosher.

Per il resto, i tempi di produzione sono gli stessi che per qualsiasi altro vino: i bianchi prevedono solitamente passaggi in acciaio, mentre i rossi, dopo la vinificazione maturano anche in botte.

Terminata la vendemmia, il vino potrà essere manipolato esclusivamente da personale di religione ebraica, pertanto dovranno essere presenti almeno due persone che si possano alternare e controllare reciprocamente, in modo da non lasciare mai il vino incustodito, evitando che qualche “impuro” possa toccarlo o anche semplicemente azionare uno strumento legato al processo produttivo.

Ogni passaggio verrà sigillato secondo un procedimento quasi maniacale che si chiama “Simanim” e il cantiniere sarà presente fino al termine di ogni procedimento produttivo, momento nel quale verrà sigillata ogni parte dalla quale sia potuto entrare o uscire il vino. Verrà inoltre apposta la propria firma a garanzia, sugellando il lavoro svolto ed evitando che nessun impuro possa mai toccarle, anche inavvertitamente, vanificando i precetti della Tōrāh.

Queste precauzioni saranno necessarie anche per le procedure successive, quindi travasi, torchiature, filtraggi, compresi gli spostamenti del vino, fino alla fase dell’imbottigliamento, a seguito della quale le bottiglie potranno finalmente essere maneggiate anche da persone non di fede ebraica.

È fondamentale quindi che i fedeli osservanti che hanno prodotto e imbottigliato il vino, nel pieno rispetto della sacralità prevista dalla Tōrāh, siano consapevoli e fieri di aver creato un qualcosa di “sacro”.

Dovrà poi essere rispettata la cerimonia del Trumat Maser con la quale, in memoria della “decima” versata ai sacerdoti Guardiani del Tempio di Gerusalemme, l’1% della produzione dovrà essere eliminata.

In questo processo produttivo, particolarmente carico di sacra energia, è indispensabile parlare di una figura particolarmente autorevole in questo campo e allo stesso tempo indispensabile affinché tutto ciò che abbiamo detto si compia: il rabbino.

Il Rabbino, o in alternativa una persona da lui nominata che possa rappresentarlo, in qualità di grande conoscitore della Legge ebraica, è colui che controlla e certifica – tramite il sigillo di approvazione – che ogni passaggio sia stato fatto nel rispetto delle regole della Tōrāh e sono pochissime le persone che nel mondo svolgono questo lavoro.

Prima di rilasciare il sigillo, vengono effettuati controlli continui, quasi sempre senza preavviso, sia in vigna che in cantina, per verificare che tutte le prescrizioni siano state rispettate e qualora non dovessero portare a valutazioni positive, la certificazione potrebbe non essere rinnovata o addirittura annullata.

Quando il vino sarà stato vinificato e imbottigliato, ogni etichetta riporterà il sigillo di approvazione con il nome del Rabbino che ha effettuato le verifiche e i sigilli suddivideranno i vini kosher in tre differenti tipologie:

– il vino Kosher, che è il vino bevuto quotidianamente tranne durante lo Shabbat;

– il vino Kosher per Pessah, che viene prodotto per essere consumato durante le feste di Pasqua, quindi facendo attenzione che non ci sia stato alcun contatto con del frumento (pane, pasta, lieviti, etc.). La tradizione ricorda la fuga degli ebrei dall’Egitto, i quali, esortati da Mosè a fuggire, non avrebbero avuto il tempo neanche di fare lievitare il pane.

– il vino Yain Mevushal, che è il vino il cui mosto viene fatto pastorizzare ad alte temperature, poi raffreddato a basse temperature, che può essere servito sempre da ebrei osservanti, anche ai non ebrei.

Considerando il lavoro che ruota intorno alla sacralità di un vino Kosher, possiamo dire che in fondo si tratta di un vino dal prezzo assolutamente contenuto.

Molte sono le certificazioni Kosher che possono essere rilasciate, tra queste la OU (Ortodox Union), ovvero l’Unione delle Congregazioni Ortodosse d’America ebraiche, molto rigorosa e apprezzata nel mercato Americano, si parla di pochissimi Rabbini al mondo (alcuni dicono una decina) autorizzati a rilasciarla.

Le attestazioni possono essere tante, come tante possono essere le circostanze nelle quali venga consumato un vino kosher e per ognuna c’è una variazione della procedura che ne giustifica il procedimento. È mia intenzione, tuttavia, non addentrarmi troppo nello specifico dell’argomento per non rischiare di commettere errori in buona fede nella descrizione dei vari procedimenti e mancare involontariamente di rispetto su un argomento così delicato.

Sull’etichetta del vino prodotto verrà riportato il nome del Rabbino che ha effettuato le verifiche, mentre sul tappo viene apposto il marchio del Rabbinato o comunque dei segni di riconoscimento.

Sarà l’Autorità del Rabbinato a rilasciare un certificato registrato presso il Rabbinato d’Israele necessario per l’esportazione e a fornire etichette e tappi per la produzione. 

      

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